Fulvio Pellegrini: la bussola del collezionista – Cenni storici

L’obiettivo di questa rubrica è quello di apportare un contributo critico sugli investimenti in arte, fornendo metodi ed analisi che si usano normalmente per gli investimenti finanziari.

Una metodologia, tenendo conto delle dovute differenze tra finanza e arte, che cercheremo di sviluppare attraverso concetti semplici e tecnicalità di facile comprensione per fornire un supporto nelle scelte effettuate dai piccoli collezionisti in arte.

Partiamo da una sintetica analisi storica.

Da quando la società mercantile si è sviluppata in Europa, dal seicento in avanti, il concetto di investimento è strettamente correlato a quello di patrimonio, ovvero la gestione di un insieme di beni e ricchezze familiari.

Patrimonio che a quei tempi era detenuto, nella sua quasi totalità, dalle famiglie nobiliari, che attraverso i privilegi del censo, tramandavano di generazione in generazione, spesso a vantaggio del solo primo figlio maschio.

Alla fine del XVIII secolo, specialmente nell’aristocrazia inglese, grazie ai commerci del vasto impero britannico, avanzò il concetto di “rendita” ovvero il patrimonio non più finalizzato alla sua semplice conservazione, ma a produrre reddito e quindi a divenire un sostentamento vitalizio.

Il primo figlio ereditava quasi tutte le ricchezze di famiglia e a lui solo toccava la gestione di esse, ma nel contempo, era consuetudine che i figli-e cadetti venissero dotati di una rendita per favorire il loro inserimento nella società fortemente classista del tempo e dettata dalle rigide regole legate all’Ancien Regime.

Dopo la rivoluzione francese il concetto di ricchezza assumerà una valenza innovativa e si legherà alla scalata sociale della nuova classe borghese a scapito di quella nobiliare ed ecclesiale.

Con la rivoluzione industriale, nell’ottocento, i concetti di capitale, produzione, investimento, assumono nuovi contesti legati alle fabbriche, mentre svilisce la rendita fondiaria legata alla coltivazione agraria dei grandi appezzamenti terrieri.

L’unione di lavoro e capitale sarà il sinonimo dominante per produrre ricchezza.

L’ultima rivoluzione avviene all’inizio di questo nuovo millennio, quando con la globalizzazione emergono nuovi paesi, i cosiddetti emergenti , che attraverso un costo del lavoro molto più basso e materie prime abbondanti, spostano gli equilibri produttivi e finanziari mondiali.

Basti pensare che la Cina, dopo il 2020, diventerà il primo paese mondiale a livello economico superando gli Stati Uniti che dalla 1° guerra mondiale sono il paese leader.

In questa fase caratterizzata da un’economia e da mercati finanziari globalizzati, subentra prepotentemente il concetto di diversificazione.

Diversificazione che consiste per le aziende nel delocalizzare i processi produttivi in diversi paesi e per i privati investire non in singoli titoli di un unico paese, ma acquistare gestioni e fondi d’investimento internazionali gestiti dalle principali società mondiali che assicurano le migliori competenze ed investimenti flessibili alla ricerca delle migliori opportunità.

Questo sintetico excursus storico è alla base di una domanda: i concetti di diversificazione, flessibilità e qualità, che sono oggi alla base di un investimento finanziario sono trasmissibili al settore delle opere d’arte e se si quali analogie esistono?

In sostanza i concetti di arte ed investimenti rappresentano un ossimoro o una tautologia?

A questo quesito non semplice si cercherà di rispondere attraverso un approccio empirico.

Giugno 2016 – F.P.-

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